STIVALETTI ROSSI
Storia di una relazione psicoterapeutica in un contesto istituzionale


Quando lo psicoterapeuta inizia a trattare una paziente come Antonella, di 22 anni - che chiameremo "Stivaletti Rossi" per il suo modo di vestire (stivaletti rossi da ballerina, corpino rosso, gonna nera svasata) - subito ha la sensazione di avere incontrato una persona psichicamente scarsamente integrata e i cui pensieri si svolgono ad un livello così rudimentale da renderla spesso incapace di differenziare pienamente gli oggetti della realtà esterna dagli oggetti interni prodotti dalla immaginazione.

La fragilità della paziente può provocare nel terapeuta delicati sentimenti di tenerezza, analoghi a quelli che suscitano i bambini quando sono molto piccoli; e non a caso il terapeuta può scoprire di stare pensando ai propri figli mentre la paziente è lì accanto in mutacico silenzio con una metà del viso coperta da una lunga chioma di capelli che le scende sulle spalle. Il timore che l'Io della paziente possa ulteriormente frammentarsi costringe il terapeuta ad una continua attenzione, preoccupato di potere sbagliare atteggiamento e modi verbali, solo di rado può sentirsi più libero.

D'altro canto la paziente difficilmente dà occasioni si sollievo: durante una seduta dà la sensazione che stia uscendo dalla sua chiusura autistica, che stia per aprirsi alla comunicazione, che stia per gratificare gli sforzi del terapeuta diretti a restringere il vallo relazionale e, invece, la seduta dopo Antonella si presenta visibilmente depressa, totalmente chiusa in sé; ha cambiato abbigliamento: calza degli stivaletti gialli e porta dei pantaloni viola; i capelli, che la seduta prima teneva raccolti in due trecce che le liberavano il volto, oggi coprono cupamente i suoi occhi; il silenzio è di tomba.

Il terapeuta ha la sensazione di trovarsi di fronte ad un essere che ha perduto le categorie logiche attraverso le quali viene ordinato l'universo esperienziale: il tempo è diventato probabilmente soltanto movimento del corpo; i luoghi forse hanno assunto valenze fortemente simboliche dispiegate lungo dimensioni surreali.

Antonella, la cui madre è una schizofrenica per lungo tempo ricoverata in Ospedale Psichiatrico, dà l'impressione come di cercare di raccapezzarsi in un labirinto (intrico complesso di relazioni e di oggetti internalizzati) entro cui l'Io sembra irrimediabilmente disperso, non più sufficientemente differenziato. Il terapeuta, durante le sedute, prova anch'egli la sensazione di una scarsa differenziazione del proprio lo, di una perdita della identità personale che, pertanto, tende a recuperare prontamente per non vivere anch' egli una esperienza psicotica. La paura di questa esperienza riattiva in esso, in modo straordinario, i processi razionali e coscienti i quali, così mobilitati diventano il principale impedimento allo sviluppo di una relazione terapeutica che si possa snodare ad un livello ancora più profondo.

In una fase ancora successiva, sono trascorsi circa quattro mesi, il silenzio durante le sedute è bene accolto da tutti e due i partners del processo psicoterapeutico. A ciò contribuisce, oltre il bisogno di evitare l'intensa angoscia che può mobilitare in entrambi ogni ricerca possa riportare in primo piano la drammaticità della realtà esistenziale della paziente, anche la profonda gratificazione che deriva dal prodursi, nella fase simbiotica della relazione terapeutica, di emozioni e di sentimenti difficilmente traducibili in pensieri razionali ed in parole, trattandosi di contenuti perduti e difficilmente rivivibili in quanto appartenenti ad epoche arcaiche dello sviluppo individuale.

Finalmente accade, un giorno, che la paziente si presenti alquanto sorridente e più libera di muoversi nella stanza dove si svolgono le sedute, cosi lei può più facilmente alzarsi e recarsi presso la finestra per osservare fuori la pioggia che cade a dirotto. Il terapeuta sente che la paziente si sta attaccando a lui e si chiede se Antonella non stia fantasticando inconsciamente di una madre che le si avvicini e se la stringa al seno. Ma quando la seduta successiva la giovane si presenta di nuovo abbattuta e cupa, il terapeuta si sente deluso, frustrato; reputa il proprio compito immane, fatto di attese interminabili, salvo prendere alcuni appunti e di tanto in tanto offrire degli stimoli verbali, ma con la sensazione che la maggior parte delle proprie parole possa cadere nel vuoto senza lasciare alcuna traccia.

Altre volte Antonella sembra rivitalizzarsi; si fa sentire attraverso i suoi sospiri, come una "bella addormentata nel bosco" che si stia svegliando, che stia per liberarsi dall'incantesimo mortifero. In questa fase la paziente sembra alla ricerca di un modulo personale; quando si decide a comunicare qualcosa verbalmente, una stessa parola la ripete tre volte, dapprima con un sussurro, poi sottovoce, infine con un tono di voce normale. Ha cambiato look: gonna e camicetta nere, stivaletti bianchi, capelli intrecciati alla vichinga; un costante velato sorriso sulle labbra.

Il terapeuta avverte un tenue affacciarsi nel la paziente di un livello seduttivo ed erotico, un riaffiorare della libido e della sessualità. Nelle sedute successive Antonella sembra tollerare poco che il terapeuta prenda appunti e comincia a guardarlo fissamente in volto; trascorsi alcuni giorni ancora, mentre egli sta prendendo degli appunti la paziente gli si avvicina molto, quasi a voler cercare un contatto epidermico e un calore umano attraverso la vicinanza corporea. Ciò nonostante il terapeuta non può non riflettere sul fatto che dopo diversi mesi di trattamento egli non è ancora riuscito a modificare la tendenza da parte di Antonella, durante le sedute, a mantenere un silenzio quasi assoluto. Gli viene in mente che forse inconsciamente lui stesso ha temuto il modificarsi di questo assetto, come se l'abbandono del silenzio possa facilitare l'emergere nella paziente delle angosce primarie, quelle che l'hanno resa così vulnerabile dal punto di vista psicoemotivo.

Antonella pian piano sembra sempre meno confusa ed ha una diversa attenzione nei confronti dell'ambiente circostante; infatti comincia ad osservare molte cose: i mobili della stanza, i libri disposti sul tavolo, i disegni dei rivestimenti. Ma si tratta di cambiamenti minimi perché nel complesso Antonella tende a mantenere con il terapeuta una relazione come se con la madre schizofrenica.

Dopo circa sette mesi dall'inizio della terapia la paziente fa registrare ulteriori progressi; finalmente ha cominciato a colloquiare con il terapeuta, anche se in modo titubante e sconnesso; e comunque parla solamente di abiti, di moda, di acconciature. Ma alcune sedute dopo, ad un certo momento, chiede al terapeuta di andarla a trovare a casa, gli offrirebbe il caffè; aggiunge che pur non vivendo da sola lei si sente molto sola. La paziente, che da tempo ha sviluppato dei vissuti persecutori relativamente ai propri familiari, evidentemente intravede nel terapeuta una figura amica e protettiva.

Antonella non è ancora in grado di affrontare un lavoro più analitico infatti le interpretazioni o le domande dirette a favorire un suo maggiore insight provocano regolarmente comportamenti stereotipi di fuga; in tali occasioni la paziente si alza di scatto e va a procurarsi una sigaretta nella sala di attesa per tornare subito dopo con la sigaretta accesa. L'unico modo per evitare questi comportamenti è il mantenere una posizione apparentemente passiva, il riuscire a fungere da contenitore del non detto, come una sorta di raccoglitore delle parti più confuse e più oscure della paziente. Questa necessità di auto-limitazione provoca nel terapeuta un recondito fastidio di cui ora ha maggiore possibilità di rendersi conto.

Attorno al nono mese di terapia, durante una seduta, Antonella presenta un'altra novità. Prende una rivista posta sulla scrivania e comincia a sfogliarla; ad un certo punto appare attratta e turbata da un’immagine su cui si sofferma a lungo. Il terapeuta è abbastanza contento; è la prima volta che vede la sua paziente intensamente interessata a qualcosa; è pure la prima volta che vede trasparire in lei una emozione non fatua e priva di ottundimenti difensivi. Ma la seduta dopo e nelle altre successive Antonella ripropone gli atteggiamenti soliti da "sirenetta", tutta sorrisi ed occhi dolci. Solo in un’occasione avviene qualcosa di diverso: Antonella sembra intenta a studiare il suo terapeuta e a cercare di capirlo, forse anche desiderosa di aiutarlo come se lo avesse sentito in difficoltà, bisognoso di sostegno.

Attorno al decimo mese di terapia, nel corso di una seduta, ad un tratto la paziente rivolge al terapeuta questa frase "lei sinora non mi ha aiutato" e poi aggiunge "Non mi può visitare? Ho l'utero infiammato. Mi può aiutare? A me serve l'utero perfetto, non ammalato; credo che sia ammalato a causa della infiammazione; non lo so! Può fare male fare all'amore: si rimane incinta con una goccia di pipì!". E la seduta dopo la paziente indica il proprio ventre dicendo che le fa male. Il terapeuta comprende che, al di là della fantasia/desiderio di essere incinta, la paziente sta recuperando il suo sé corporeo e che questa ri-personalizzazione somatica non può avvenire senza un certo dolore.

Trascorso un mese ancora, il terapeuta è portato a pensare che quando Antonella fornisce la risposta "niente" alla richiesta di comunicare cosa le stia passando per la mente ora questa risposta può avere un significato diverso rispetto a prima, quando la paziente mostrava un'enorme difficoltà a “pensare i propri pensieri”. Adesso la stessa risposta può anche essere interpretata come una forma di resistenza, dato che la paziente sembra aver acquisito una maggiore coscienza di sé ed una minore precarietà del sentimento di identità personale.

Verso la fine del dodicesimo mese, si verifica un’improvvisa interruzione del trattamento. Il terapeuta, infatti, improvvisamente è obbligato dall'azienda sanitaria locale, suo malgrado, ad utilizzare tutto il congedo ordinario in precedenza accumulato per essere sostituito da un collega più anziano smanioso di fare, per un breve periodo, esperienza della psichiatria di territorio.

L'assenza del terapeuta dal presidio ambulatoriale non è eccessivamente lunga (poco più di un mese) ma risulta sufficiente perché Antonella, che nel frattempo non era stata più seguita da alcuno psichiatra, ripiombi nello stato psichico iniziale; anche perché il padre della paziente - che in precedenza aveva sempre accompagnato la figlia presso l'ambulatorio regolarmente tre volte alla settimana per le sedute - pur avendo aderito formalmente ad una ripresa del trattamento, trova il modo, adducendo di volta in volta varie scuse, di saltare la maggior parte degli appuntamenti. Così l'incontro tra Antonella ed il suo terapeuta diviene un evento del tutto sporadico. A tutto ciò anche Antonella contribuisce, per la sua parte, rendendo interminabili i preparativi ogni volta che deve uscire da casa, così come avveniva agli inizi dalla cura.

Il terapeuta forse potrebbe cercare di proseguire il suo lavoro recandosi a domicilio della paziente, ma varie considerazioni gli fanno scartare l'idea. Innanzitutto, il timore che ulteriori possibili interventi burocratici possano nuovamente vanificare gli sforzi terapeutici sostenuti e causare nella paziente nuove regressioni psichiche; inoltre, il timore che il trasferimento delle sedute a casa della paziente possa rappresentare un mutamento troppo radicale rispetto al setting psicoterapeutico precedentemente istituito e che tale cambiamento possa eventualmente scatenare nella paziente, che nel passato aveva anche tentato il suicidio, eventuali emergenze psicopatologiche, difficilmente controllabili senza il supporto di una équipe territoriale in grado di fornire, all’occorrenza, un’adeguata assistenza domiciliare ad integrazione del lavoro clinico psicodinamico; infine, verosimilmente, oltre la consapevolezza di un contesto generale terapeutico divenuto abbastanza ostativo, ad un livello meno conscio, lo stress per il carico psico-emotivo terapeutico precedentemente sostenuto e l’aumentato timore (naturalmente in una dose accettabile esso è generalmente presente in ogni psicoterapia) di fallire nella cura.

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COMMENTO

di Alfredo Anania

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Il caso sopra descritto, lascia al lettore l’amaro in bocca per vari motivi: innanzitutto, una cura che sembrava promettente, pur con tutte le difficoltà del caso, viene comunque interrotta e la paziente, che appare fragilissima a causa della sua malattia, sembra destinata a ripiombare irrimediabilmente nel suo guscio difensivo psicotico; in secondo luogo, alla fragilità della paziente corrisponde anche una qualche fragilità dello psicoterapeuta, nel senso che lo psichiatra curante si mostra facile allo scoraggiamento e privo di quella capacità di costanza necessaria a mantenere comunque una relazione terapeutica, ciò anche in considerazione del transfert visibilmente positivo e della compliance sin dall’inizio della psicoterapia mostrati della paziente anche se in una forma sui generis per via della sua psicosi; infine, sembra paradossale il modo d’interferire da parte amministrazione sanitaria locale sull’assetto operativo del servizio psichiatrico e, pertanto, indirettamente sulla relazione terapeutica, in una forma così burocraticamente selvaggia da apparire inverosimile se non risultasse così drammaticamente vero che non-infrequente nella sanità pubblica (e forse anche in quella privata) intervengano fattori estranei alla cura e alla relazione terapeutica e più intimamente connessi a giochi di potere, intrallazzi e cose di questo genere

Non è mai abbastanza ripetere la fondamentale importanza del “lavoro d’équipe” nelle istituzioni psichiatriche, infatti, classicamente “il lavoro d’équipe si rende necessario quando le forze del singolo non sono sufficienti”! Da diversi anni si è affermata l’idea che nella cura delle psicosi è preferibile un lavoro multimodale da parte di un’équipe che possa operare funzionalmente intervenendo a diversi livelli (terapia farmacologia e psicoterapia individuale, terapia di gruppo, terapia della famiglia, arte-terapia, terapia occupazionale, tecniche di riabilitazione e di risocializzazione) in vari momenti secondo una programmazione decisa dall’équipe stessa attraverso riunioni periodiche collegiali finalizzate a discutere e valutare l’evoluzione clinica del caso e a coordinare gli interventi ritenuti necessari. È evidente che essenziali al buon funzionamento dell’équipe quale gruppo di lavoro sono due condizioni: la prima è che il conduttore dell’équipe abbia un’adeguata formazione psicodinamica e gruppale; la seconda è che tutti gli operatori abbiano una formazione al lavoro d’equipe. A suo tempo ho proposto di sostituire il modello classico dell’“orchestra”, per metaforizzare il funzionamento dell’èquipe, con il modello del “gioco degli scacchi”: ove ogni pezzo della scacchiera può eseguire solo quelle “mosse” che gli sono peculiari e muoversi nel modo strategicamente più conveniente (ad avviso del giocatore; nel nostro caso ad avviso dell’équipe nel suo insieme [“group mind”]). Ritengo che il modello da me proposto ha il vantaggio di non confinare l’equipe al ruolo in un certo senso di passiva esecuzione, come fa l’orchestra, di partiture, talora pur sublimemente interpretate, ma composte in genere da altri; al contrario, la metafora del gioco degli scacchi valorizza la possibilità dell’équipe di operare con una “mente” strategica e creativa che predisponga gli interventi operativi multimodali in modo coordinato e con duttile adattamento all’effettiva realtà (clinica ed ecosistemica) che si va evolvendo.

Purtroppo sono ancora molto rare istituzioni psichiatriche, come ad esempio Chestnut Lodge, predisposte per ospitare a lungo pazienti psicotici trattati con psicoterapia analitica intensiva (cinque giorni alla settimana per un periodo di anni che varia tra i 5 e i 15 anni, secondo la gravità del caso clinico) sino alla possibile guarigione e dove l’intero staff ha un considerevole livello di formazione psicodinamica (ad esempio, anche gli infermieri hanno nel proprio bagaglio formativo qualche anno di analisi personale). Il riferimento a questo tipo di ospedali e comunità terapeutiche può servire anche a citare psichiatri-psicoanalisti, come Harold F. Searles, i quali hanno dedicato la loro vita professionale al trattamento psicoanalitico delle psicosi e le cui pubblicazioni, basta citare di Harold F. Searles "Scritti sulla Schizofrenia" (Boringhieri Ed; Torino; 1974), possono chiarire molte delle profonde dimensioni relazionali (intravedibili anche nella vicenda terapeutica sopra raccontata) che si sviluppano tanto nel paziente che nel terapeuta nel corso della psicoterapia intensiva di una psicosi.

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